apocalypse wow
No. Non è una granfondo. No. Non è un’impresa. No. Non è la Maratona, non è la Marmotte, non è la Novecolli.
E’ un magma di terrore che comincia a muoversi e serpeggiare una mattina di giugno tra le vie silenziose di uno splendido borgo medioevale di nome Feltre.
Eppure pare di essere in un assolato villaggio del Far West prima del mezzogiorno di fuoco. Ti aspetti Clint Eastwood con gli speroni e la cicca in bocca in sella a una Cannondale Supersix con lightweight in carbonio, da un momento all’altro. Sergio Leone, ca va sans dire, fischietta nascosto su un balcone.
Quattromila anime a pedali che guardano per terra.
Fisici scolpiti, polpacci glabri e scintillanti popolavano il sagrato della chiesa già il giorno precendente. Un invasione di fisici ariani. Pancette e lipidi da Sangiovese e Novecolli qui nemmeno l’ombra. Le osterie sono popolate da un popolo silente. Tutti mangiano. Nessuno fiata. Nulla dell’allegria, nessun segno della gaia spensieratezza romagnola. Qui siamo a Feltre. Benvenuti all’inferno. E all’inferno, baby, non si scherza e non si ride. All’inferno si tace.
Sguardi bassi, silenzi lunghi. In una parola: rispetto.
Rispetto e consapevolezza per un destino che agguanterà tutti l’indomani. Spietato. Crudele, Senza via di scampo.
Quattromila ciclisti, dicevamo, come marines prima dello sbarco, asserragliati in griglia come nei mezzi anfibi prima che si apra il portellone. Mutton farfuglia dall’altoparlante di “dissuardersi dal correre inutili rischi e fare il pecorso lungo, se non si è preaparati”. Aggiunge un tragico “Potrebbe esservi fatale”.
La rassegnazione prende il sopravvento.
Aggiungeteci che sarò solo a pedalare per 10 ore e l’apocalisse è servita.
Si parte.
I primi chilometri sono confusi: nessuno parla, nessuno osa, ma nessuno si risparmia. Non si capisce quale sia il ritmo. Ognuno scruta l’altro.
Cinquanta tu, che trentaquattro io. Mangia e bevi prima del solo “mangia”. La grande abbuffata.
La spettrale valle del Mis ci accoglie come cavalieri dell’apocalisse usciti dalla penna di Tolkien.
Gallerie pericolanti, umide, nere con asfalto fradicio di incubi ci accolgono con folate di aria gelida. C’è chi fora, c’è chi taglia il copertoncino e si deve piegare anzitempo al destino.
I cavalieri che restano in sella, senza farsi disarcionare, avanzano penitenti. C’è quasi un moto animistico che muove questa granfondo: chi la fa prosegue per inerzia, spinto da una forza segreta. Deve compiere il suo destino.
Non è un caso che il colore ufficiale sia il nero. È un viaggio nell’ade del dislivello. Nel nero della fatica e della sfida con se stessi.
Tutti sanno che avranno una crisi. Che non ci sarà modo di evitarla. Tutto sta solo nel capire quando: Valles, Rolle, Duran o Staulanza? Questo non è il problema: arriverà. Prima o poi, ma arriverà.
Tanto vale rassegnarsi e lasciarsi trasportare dal moto animistico color pece dell’Apocalisse. E dal suo ritmo shamanico.
Forcella Franche va via come acqua fresca. Subito dopo, come in una favola al contrario, restano solo i cattivi: I buoni piegano saggiamente per il percorso “razionale”: il medio di 120 km. I cattivi proseguono. Scelgono al carta matta dei 220 km e 5.300 metri di dislivello. Senza ritorno.
Il Duran li aspetta. Una trincea scavata a forza di rasoiate al 15%, ma una trincea di bellezza rara: puramente dolomitica. Per un attimo la colgo. Il bello del gioco è anche questo: il sublime kantiano è sempre misto ad orrore.
La discesa è insidiosa: si surfa tra le onde di tornanti stretti che s’incuneano nel bosco. S’affaccia la Forcella Staulanza. Terzo dente, di difficile interpretazione. Ma la testa è giù tutta oltre. Al quarto molare di giornata, lo spauracchio, il fucile a canne mozze puntato in fronte: il Valles. Il cancello di Cencenighe agordino suona come la campana della sfida all’Okay Corral. Devi arrivarci in tempo o ti mettono su un pullman e ti rispediscono a casa. Via dall’Inferno. Via da questi 20 km di salita pura. Gli ultimi 7 devastanti: mai sotto il 10%. Lo scollinamento un miraggio da capogiro.
In cima, bevo 4 coca-cole, ingurgito 3 pezzi di banana, m’infilo un panino a prosciutto in gola e mi fiondo nella discesa perdifiato verso il Rolle. Ho molti ripensamenti: e soprattutto 4200 metri di dislivello macinati, ma ben 80 km e due passi ancora davanti. Tengo botta: voglio diventare un cavaliere dell’Apocalisse, voglio l’aquila di Cencenighe tatuata sul braccio.
Il Rolle va via sincero e rapido: e come per magia, ti vengono concessi 20 km di discesa, prima della fiondata finale. Il Croce d’Aune, laddove Campagnolo ha il suo monumento. Il simbolo di questa marcia nell’Ade.
In cima, mi fermo. Faccio pipì. La più bella, piacevole rilassante di sempre. Guardo le nuvole in cielo che corrono come bufali impazziti.
So che è fatta. Tocca solo scendere.
E scendo. La discesa più goduta e veloce di sempre che porta nel cuore di Feltre. Dove da sempre era giusto che arrivassi.
Ite, l’Apocalisse è compiuta. Ed è bellissima.
via americancyclo
E’ un magma di terrore che comincia a muoversi e serpeggiare una mattina di giugno tra le vie silenziose di uno splendido borgo medioevale di nome Feltre.
Eppure pare di essere in un assolato villaggio del Far West prima del mezzogiorno di fuoco. Ti aspetti Clint Eastwood con gli speroni e la cicca in bocca in sella a una Cannondale Supersix con lightweight in carbonio, da un momento all’altro. Sergio Leone, ca va sans dire, fischietta nascosto su un balcone.
Quattromila anime a pedali che guardano per terra.
Fisici scolpiti, polpacci glabri e scintillanti popolavano il sagrato della chiesa già il giorno precendente. Un invasione di fisici ariani. Pancette e lipidi da Sangiovese e Novecolli qui nemmeno l’ombra. Le osterie sono popolate da un popolo silente. Tutti mangiano. Nessuno fiata. Nulla dell’allegria, nessun segno della gaia spensieratezza romagnola. Qui siamo a Feltre. Benvenuti all’inferno. E all’inferno, baby, non si scherza e non si ride. All’inferno si tace.
Sguardi bassi, silenzi lunghi. In una parola: rispetto.
Rispetto e consapevolezza per un destino che agguanterà tutti l’indomani. Spietato. Crudele, Senza via di scampo.
Quattromila ciclisti, dicevamo, come marines prima dello sbarco, asserragliati in griglia come nei mezzi anfibi prima che si apra il portellone. Mutton farfuglia dall’altoparlante di “dissuardersi dal correre inutili rischi e fare il pecorso lungo, se non si è preaparati”. Aggiunge un tragico “Potrebbe esservi fatale”.
La rassegnazione prende il sopravvento.
Aggiungeteci che sarò solo a pedalare per 10 ore e l’apocalisse è servita.
Si parte.
I primi chilometri sono confusi: nessuno parla, nessuno osa, ma nessuno si risparmia. Non si capisce quale sia il ritmo. Ognuno scruta l’altro.
Cinquanta tu, che trentaquattro io. Mangia e bevi prima del solo “mangia”. La grande abbuffata.
La spettrale valle del Mis ci accoglie come cavalieri dell’apocalisse usciti dalla penna di Tolkien.
Gallerie pericolanti, umide, nere con asfalto fradicio di incubi ci accolgono con folate di aria gelida. C’è chi fora, c’è chi taglia il copertoncino e si deve piegare anzitempo al destino.
I cavalieri che restano in sella, senza farsi disarcionare, avanzano penitenti. C’è quasi un moto animistico che muove questa granfondo: chi la fa prosegue per inerzia, spinto da una forza segreta. Deve compiere il suo destino.
Non è un caso che il colore ufficiale sia il nero. È un viaggio nell’ade del dislivello. Nel nero della fatica e della sfida con se stessi.
Tutti sanno che avranno una crisi. Che non ci sarà modo di evitarla. Tutto sta solo nel capire quando: Valles, Rolle, Duran o Staulanza? Questo non è il problema: arriverà. Prima o poi, ma arriverà.
Tanto vale rassegnarsi e lasciarsi trasportare dal moto animistico color pece dell’Apocalisse. E dal suo ritmo shamanico.
Forcella Franche va via come acqua fresca. Subito dopo, come in una favola al contrario, restano solo i cattivi: I buoni piegano saggiamente per il percorso “razionale”: il medio di 120 km. I cattivi proseguono. Scelgono al carta matta dei 220 km e 5.300 metri di dislivello. Senza ritorno.
Il Duran li aspetta. Una trincea scavata a forza di rasoiate al 15%, ma una trincea di bellezza rara: puramente dolomitica. Per un attimo la colgo. Il bello del gioco è anche questo: il sublime kantiano è sempre misto ad orrore.
La discesa è insidiosa: si surfa tra le onde di tornanti stretti che s’incuneano nel bosco. S’affaccia la Forcella Staulanza. Terzo dente, di difficile interpretazione. Ma la testa è giù tutta oltre. Al quarto molare di giornata, lo spauracchio, il fucile a canne mozze puntato in fronte: il Valles. Il cancello di Cencenighe agordino suona come la campana della sfida all’Okay Corral. Devi arrivarci in tempo o ti mettono su un pullman e ti rispediscono a casa. Via dall’Inferno. Via da questi 20 km di salita pura. Gli ultimi 7 devastanti: mai sotto il 10%. Lo scollinamento un miraggio da capogiro.
In cima, bevo 4 coca-cole, ingurgito 3 pezzi di banana, m’infilo un panino a prosciutto in gola e mi fiondo nella discesa perdifiato verso il Rolle. Ho molti ripensamenti: e soprattutto 4200 metri di dislivello macinati, ma ben 80 km e due passi ancora davanti. Tengo botta: voglio diventare un cavaliere dell’Apocalisse, voglio l’aquila di Cencenighe tatuata sul braccio.
Il Rolle va via sincero e rapido: e come per magia, ti vengono concessi 20 km di discesa, prima della fiondata finale. Il Croce d’Aune, laddove Campagnolo ha il suo monumento. Il simbolo di questa marcia nell’Ade.
In cima, mi fermo. Faccio pipì. La più bella, piacevole rilassante di sempre. Guardo le nuvole in cielo che corrono come bufali impazziti.
So che è fatta. Tocca solo scendere.
E scendo. La discesa più goduta e veloce di sempre che porta nel cuore di Feltre. Dove da sempre era giusto che arrivassi.
Ite, l’Apocalisse è compiuta. Ed è bellissima.
via americancyclo
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